Lost in Translation: 5 titoli improbabili!

Visto che è Ferragosto ci sta qualcosa di leggero e rapido da leggere, ecco cos’ho partorito: è notorio, i “titolisti” nostrani sono specializzati in nefandezze inenarrabili: c’è da stuprare un titolo, cambiandone intenti e significato? Serve far mostra di grande idiozia inserendo prurigginosità fittizie? Loro sono la soluzione! Le pellicole che hanno subito modifiche in peggio sono innumerevoli ma probabilmente quella che ha patito l’onta maggiore è stata “Se mi lasci ti cancello”. Titolo paradigmatico circa la dabbenaggine di chi l’ha partorito: non si sarebbe potuto scegliere nulla di peggiore. Optare per una soluzione del genere ha fatto pensare agli appassionati cinefili all’ennesima sciocchezza sentimentale tenendoli lontani dalle sale che invece sono state visitate da un tipo di pubblico abituato a un cinema “cheap”. Perché il film in questione è un filmone, uno di quelli da vedere per forza. Probabilmente “Eternal Sunshine of the Spotless Mind” (2004) era troppo difficile da tradurre con  “L’infinito fulgore di una mente candida” (verso che arriva da un componimento di Alexander Pope). Questa introduzione mi serviva per poter parlare di “5 titoli improbabili”! Potrebbe diventare un post a cadenza mensile, il materiale non manca.

The hunger

The hunger

Miriam si sveglia a mezzanotte” (“The hunger”, 1983) di Tony Scott: l’elegantissimo film di Scott, il cui scarno titolo inglese era “La fame” (si parla di patinati vampiri) diventa, inspiegabilmente, “Miriam si sveglia a mezzanotte”! Che poi Miriam,  una raffinatissima Catherine Deneuve, non si sveglia affatto a mezzanotte (o, quantomeno, non è quello il punto focale della narrazione)! Probabilmente l’intento era suggerire un qualche allusione erotica circa le pratiche di Miriam dopo la mezzanotte…  

 

 

 

Paradiso Perduto

Paradiso Perduto

Paradiso perduto” (“Great Expectations “, 1998) di Alfonso Cuaron: mi chiedo, perché? Il film, niente di fenomenale, si rifà in chiave contemporanea al celebre romanzo “Grandi speranze”, dal quale infatti  prende il  titolo originale in inglese, del sommo Charles Dickens; per quale motivo tradurlo in italiano con quello di un’opera del poeta John Milton? Sarebbe come se Giuseppe Tornatore girasse “La Divina Commedia” e  in Inghilterra uscisse nei cinema come “The betrothed”, ovvero “I promessi sposi”!

 

 

 

Questa ragazza è di tutti

Questa ragazza è di tutti

Questa ragazza è di tutti” (“This property is condemned”, 1966) di Sydney Pollack: il titolo originale suonerebbe  come “Questo edificio è pericolante” e si rifà a un’opera drammatica di Tennessee Williams (il quale probabilmente si sta rotolando nella tomba).  Natalie Wood e Robert Redford sono protagonisti di una storia malinconica, disperata e pudica; perché il titolo italiano fa pensare a un film a luci rosse?

 

 

 

 

Con una mano ti rompo con due piedi ti spezzo

Con una mano ti rompo con due piedi ti spezzo

Con una mano ti rompo con due piedi ti spezzo” (“One Armed Boxer“, 1972) di Jimmy Wang Yu: prodotto dalla leggendaria Golden Harvest giunse in Italia sull’onda del successo dei primi film di Bruce Lee; probabilmente era troppo difficoltoso renderlo come ”Il Boxer (ribelle cinese che praticava il Kung fu) con un braccio solo” (titolo che si rifaceva all’antecedente saga degli “spadaccini monchi” di Chang Cheh), infatti è stato scelto qualcosa di assolutamente incredibile e idiota: “Con una mano ti rompo con due piedi ti spezzo”!

 

 

 

NOn drammatizziamo... è solo questione di corna

NOn drammatizziamo… è solo questione di corna

Non drammatizziamo… è solo questione di corna” (“Domicile conjugal”, 1970) di François Truffaut: il sublime regista francese è stato uno dei più tartassati; la sua ottima pellicola, che in italiano avrebbe dovuto essere un tranquillo “Domicilio coniugale”, è stata malamente tradotta con “Non drammatizziamo… è solo questione di corna”, titolo da denuncia penale! Chiunque leggendolo potrebbe pensare a Fenech, Alvaro Vitali e Lino Banfi; invece si tratta del prosieguo delle avventure del timido Antoine Doinel. Si è optato per qualcosa di vergognoso per attrarre nelle sale il pubblico che da lì a pochissimo avrebbe assaltato i cinema per gustarsi la nascente “commedia sexy all’italiana”.

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ROBIN WILLIAMS 1951 – 2014

Hollywood continua a perdere pezzi; dopo la recente dipartita di Philip Seymour Hoffman, nella notte è arrivata la notizia della morte del celebre attore Robin Williams. A seguito di una chiamata d’emergenza da parte dell’agente del divo la polizia ne ha constatato il decesso presso la sua residenza di Tiburon, California. Le prime ipotesi, confermate dalle forze dell’ordine, parlerebbero di suicidio: Williams è stato ritrovato con una cintura al collo e con dei segni di arma da taglio su un polso, la morte sarebbe avvenuta per asfissia. Il rinomato attore era da tempo finito nelle spire della depressione; qualcuno, un amico, ha menzionato anche alcuni problemi economici sorti a causa del suo recente divorzio. Robin Williams aveva 63 anni. Lascia una moglie (la terza) e tre figli.

La notizia ha gettato nello sconforto il mondo del cinema (e non solo), moltissimi i messaggi di cordoglio sul suo profilo Twitter (il presidente Barack Obama e Kevin Spacey tra i primi). Sebbene non fosse tra i miei favoriti, mentre era una figura popolarissima dello star system e godeva del favore di un pubblico molto vasto, è giusto tributargli il giusto plauso per una lunga carriera segnata da svariati successi. Dopo aver ottenuto una grande notorietà con la serie TV “Mork & Mindy” (1978 – 1982), si diede anima e corpo al cinema dove si affermò sfornando uno dopo l’altro film come: “Good Morning Vietnam” (1987, lo vidi al cinema, assolutamente una pellicola da recuperare), lo stupendo “L’attimo fuggente” (1989), l’originale “La leggenda del re pescatore” (1991), l’insolito “Jakob il bugiardo” (1999) e il commovente “L’uomo bicentenario” (1999). E’ stato amato dal grande pubblico per film mediocri ma ad alto contenuto emotivo quali “Mrs. Doubtfire – Mammo per sempre” (1993) e “Patch Adams” (1998). Fu candidato al premio Oscar per 4 volte vincendolo in una sola occasione, come miglior attore non protagonista, con il film di Gus Van Sant Will Hunting – Genio ribelle”. Tutti i suoi fans sono certi che lui ora stia in un posto migliore, probabilmente “al di là dei sogni”…  

Robin Williams 1951 - 2014

Robin Williams, attore, nato 21 luglio 1951; morto l’11 agosto 2014

 

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LA RAGAZZA DELLA PORTA ACCANTO (1989)

The_Girl_Next_Door-298x500La ragazza della porta accanto” (“The girl next door“, 1989) di Jack Ketchum non è esattamente la tipica lettura agostana ma qualche temerario potrebbe volersi cimentare nell’impresa; ecco qualche annotazione a riguardo (non racconto specificamente trama né finale ma potrebbero esserci indicazioni considerabili come lievi spoiler). Sollievo e costernazione sono le sensazioni materializzatesi alla chiusura del libro, all’uscita dall’incubo concretizzatosi in un’anonima casa di una cittadina come tante nella provincia del New Jersey. Il signor Ketchum gioca duro, o, per usare il termine che lui stesso impiega nella postfazione, gioca “pesante”. Perché la sua scrittura chiara, diretta e lineare non nasconde (quasi) nulla dei particolari “scomodi” e ciò che viene narrato (giustamente viene ricordato nelle annotazioni finali come in una vicenda di questo tipo certe cose “o le racconti o non le racconti”) è pesante come un macigno fatto cadere dalla cima di un dirupo sulla testa del lettore: si rischia di venirne schiacciati, stritolati. Ketchum lo sapeva ma la sua voglia di raccontare cosa gli incute paura e lo fa maggiormente arrabbiare è stata più forte: partendo da un fatto reale trattato in un’antologia criminale, ha provato a narrare la storia di persone apparentemente normali, di cui non si dubiterebbe mai, che nascondono spaventose e abissali differenze rispetto al mondo circostante.

Jack Ketchum

Jack Ketchum

Il romanzo, ambientato negli anni ’50, parte con un’atmosfera quasi sognante, idilliaca: un ruscelletto, un ragazzino, una roccia su cui pescare, una bella ragazzetta; pare di essere nel bel mezzo di “Stand by me” o “Pleasantville”. Persino il narratore risulta gioviale (la vicenda è esposta in prima persona): il 40 enne David che rimembra cosa gli accadde quando aveva 12 anni. Ma il suo ricordo, piano piano muta, assume i contorni di una dolorosa confessione, di esplicita espiazione, dove nessuno è come sembra, tutti sono colpevoli (lui più di tutti), tranne la vittima principale: l’innocente e solare Meg. E allora ecco uno sviluppo che procede per accumulo: prima un sentore lontano, poi lievi avvisaglie che diventano i prodromi di un incubo che pare senza fine. L’accumulo vale anche per la tensione che si addensa mano a mano, creando, per me è stato così, una sentimento d’angoscioso fastidio. Si viene precipitati nell’orrore, nell’irrazionale e inconcepibile brutalità dell’uomo, di certi uomini; si vorrebbe chiudere il volume, lasciar perdere, ma l’indignazione, unita alla speranza di scorgere uno spiraglio di luce, è più forte. Ketchum mette in scena la fragilità umana, esplicita quel sentimento insito nel profondo che risponde al nome di “paura del diverso”, dimostra quanto l’odio possa diventare una miccia letale soprattutto se a muovere i fili del gioco è un adulto. Adulto ammantato da un’aura quasi mistica e supportato dall’indefessa fiducia di un pugno di ragazzini imberbi che diventano suoi aguzzini. Ruth è la mente, è l’incarnazione del male; in questo senso è assimilabile al Kurtz di Conrad. Lei è la manifestazione dell’insensibilità, della pazzia, nella sua forma primordiale, mostruosa; libera da ogni remora o convenzione. Forse è per questo che il personaggio più colpevole di tutti, non è lei, bensì David; lui è testimone di tutti gli accadimenti e, benché combattuto, non fa nulla! Subisce passivamente, finge di non capire quello che sta capitando e non avverte i propri genitori; quando si decide è troppo tardi. “La ragazza della porta accanto” non ha come obiettivo il trasmettere significati profondi, vuole solo essere uno spaventoso spaccato di ciò che potrebbe nascondersi nell’indole del nostro vicino di casa. Butta in faccia al lettore degli eventi ripugnanti che la morale corrente giustamente riterrebbe impensabili ma già consumatisi in passato. Un testo tostissimo, sgradevole, scomodo, psicologicamente disturbante che sconsiglio ai più poiché potrebbero uscirne disgustati e atterriti (assicuro che provoca un fortissimo, e costante, senso di disagio). Io ne avevo sentito parlar bene, oggi mi domando perché abbia aspettato tanto a leggerlo! Ritengo che Jack Ketchum sia un signor autore, munito della dote di cui difetta la gran parte degli autori moderni: l’autenticità. Chi vorrà provare l’avventura, adesso sa a cosa andrà incontro.

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La Dama sconsiglia: L’ELEGANZA DEL RICCIO di Muriel Barbery

 

Immagine DamaLa Dama è una preziosa amica, formidabile consumatrice di libri ma anche autrice di leggiadre poesie e racconti. Ha acconsentito a mettere a mia disposizione la sua penna mordace e lancerà strali verso le opere che ha detestato; questo è il risultato per il mese di luglio:

Questa volta è il turno de “L’eleganza del riccio” (2006) di Muriel Barbery

“Basta avere sperimentato una sola volta che possiamo essere ciechi in piena luce e, al contrario, vederci nell’oscurità”.

L'eleganza del riccioCome ho scritto giorni fa non mi fido dei romanzi contemporanei, soprattutto di quelli eccessivamente osannati dalla critica.
Mentre con “Q” di Luther Blisset mi era andata bene, adesso con questo “L’eleganza del riccio” mi è andata decisamente maluccio; un libro che mi ha lasciata piuttosto perplessa, che non trovo meritevole dei tanti elogi ricevuti; il suo successo mi appare inspiegabile e non capisco come possa essere divenuto un caso letterario così eclatante.
La storia è molto semplice: protagonisti sono un’adolescente di nome Paloma che ha deciso di suicidarsi il giorno del suo tredicesimo compleanno perché si sente troppo superiore, a suo dire, alle persone che la circondano, dai suoi genitori ai suoi compagni di classe e amici e Renee Michel, una portinaia cinquantenne poco attraente ma dalla vasta cultura.
Mai avevo incontrato sul mio percorso letterario due personaggi così odiosi e antipatici, due personaggi pieni di snobismo e di arroganza, le stesse “qualità” che trasuda questo romanzo, che puzza di snobismo lontano un miglio.

Muriel Barbery

Muriel Barbery

In più lo stile dell’autrice non mi è piaciuto, l’ho trovato insopportabile e artefatto, pieno di battute e ironie fuori luogo, prese in giro continue nei confronti degli altri e filosofia da due spiccioli fatta passare per illuminante insegnamento di vita.
Un romanzo che mi ha lasciato poco e nulla, sia dal punto di vista emotivo che di pensiero… sinceramente non ho visto tutta questa bellezza (e poesia) tanto decantata, per me si tratta dell’ennesima (e furba) mossa commerciale per attirare il lettore “medio” (il finale poi l’ho trovato anonimo, il classico che ti fa dire: “Embè, tutto qui?”).
Un libro sospeso tra l’inutilità e la mediocrità… posso consigliarlo solo agli appassionati di filosofia e psicologia, ma c’è di gran lunga di meglio in giro su quegli argomenti. “L’eleganza del riccio“? Bocciato.

Voto: 4.5

 

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I GRANDI DELLA FANTASCIENZA in libreria

Il giorno dei TrifidiSiccome questa sera non ho voglia di vedermi prelibatezze del calibro di “Tutte le cose che non sai di lui”, sarà meglio che mi dedichi a glorificare un’operazione degna di nota. E’ risaputo, nelle librerie nostrane il genere più inviso, trascurato e maltrattato da una ventina (pure una trentina) d’anni a questa parte è quello della Fantascienza; parola che fa inorridire al solo pronunciarla. Lo sparuto manipolo di autori che lotta per uno sprazzo di visibilità pur essendo relegato su scaffali collocati in posizioni anguste, consta dei soliti noti: Asimov, Dick, Ballard e Bradbury; qualche libreria più audace osa con Adams e magari Herbert. Solo la Fanucci sta tentando di mantenere vivo il genere riproponendo delle saghe classiche di non facile reperibilità (e qui troviamo i vari Vance, Farmer e Simmons); mentre la Mondadori, con la sua storica collana Urania, persevera nel presidio delle edicole.

UniversoIn questo idilliaco panorama si inserisce la lodevole iniziativa della Mondadori, ovvero la nuova collana da libreria “Oscar. I grandi della Fantascienza”. Sei sono i volumi attualmente disponibili, la data di uscita è stata il 3 giugno scorso, e si può proprio parlare di “parterre de rois”: ”I reietti dell’altro pianeta” (1974) della benemerita Ursula Le Guin, il leggendario “Il giorno dei Trifidi” (1951) di John Wyndham, il superclassico “Le sabbie di Marte” (1951) di Arthur C. Clarke, l’originale “Viaggio allucinante” (1966) dell’immancabile I. Asimov, lo splendido “Universo” (1963) di Robert E. Heinlein e il gustoso “Destinazione stelle” (attenzione, questo romanzo è noto anche come ”La tigre della notte”, 1956) dell’ingegnoso Alfred Bester. Edizione in brossura a un prezzo non troppo esagerato, 10 euro (6,99 per la versione eBook). Io me ne assicurerò sicuramente un paio (Wyndham e Le Guin). Le copertine del buon Franco Brambilla sono accattivanti, autori e opere prescelti di valore perciò mi auguro che la collana possa incontrare un certo favore da parte del pubblico e vedere la pubblicazione di molte altre opere imprescindibili.

Collana “I Grandi della Fantascienza”, editrice Mondadori, 10 euro.

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Tutti i colori del thrilling: TULPA

L'aldilaUna delle mie passioni cinematografiche è il giallo, ovvero il thrilling italiano anni ’70-’80; quello che dettava legge in quegli anni e ha fatto scuola in tutto il mondo. I nostri autori sono ricordati e celebrati ancora oggi ovunque, solo qui ce ne siamo dimenticati (Fulci chi?). Ecco dunque una nuova rubrichetta dedicata esclusivamente all’orrore italico, in tutte le sue sfumature, sia giallo che horror.  Molto spesso andrò a ripescare tra i classici, sporadicamente, come oggi, affronterò materiale contemporaneo (il poco rimasto).

TULPA – Perdizioni mortali (2013) di Federico Zampaglione

TulpaLisa (Claudia Gerini) è una rampante manager che lavora in una florida azienda finanziaria (con a capo Michele Placido); la sua vita parrebbe uguale a quella di chiunque, se non per il fatto che la ragazza, calata la notte, frequenta un esclusivo club privato denominato Tulpa. Tra le sue sicure mura, tramite l’assunzione di una bevanda opportunamente “corretta” dal proprietario (una sorta di sciamano saggio), ella puo’ sfogare tutti i suoi istinti sessuali. Casualmente Lisa legge su un giornale della brutale uccisione di tre persone; sono proprio quelle con cui lei ha avuto i suoi ultimi rapporti carnali al Tulpa…

 Ed eccomi a inaugurare la rubrica andando a prendere in esame il recente lavoro di Federico Zampaglione, onesto cantante e ultimo appassionato alfiere dell’horror italico. Dopo la buona prova offerta con “Shadow” (2009), m’aspettavo molto e le premesse parevano gustose: soggetto del leggendario Dardano Sacchetti (come “chi è”?), struttura similare a quella dei thrilling argentiani e un’implicita promessa di efferati omicidi.
Il risultato finale è un “gialletto” che omaggia, ampiamente, Argento e Mario Bava (del quale sono riprese certe tonalità di colore), oltre a lambire territori già frequentati da Lenzi e Martino. Benché sia quasi palpabile l’entusiasmo con cui Zampaglione ha messo in scena i vari omicidi, che non mancano di originalità e crudezza (quello della giostra non è male), ciò di cui la pellicola difetta è una curata confezione generale. La storia su cui si sviluppa la trama “diurna”, in cui viene accennata una blanda critica all’Italia dei mezzucci e mezzibusti, è scadente; ha la qualità di una soap – opera, priva di mordente e ritmo. La sciatteria è acuita dalle prestazioni di un bolso Michele Placido (sotto la sufficienza) e di un’imbarazzante Claudia Gerini. Zampaglione vede bene di non lesinare sulle inquadrature di nudo dedicate alla moglie, la quale, sebbene non richiesta (anche se qualche incallito onanista avrà gradito), ci viene spudoratamente offerta per diversi minuti intenta nelle sue prestazioni “orgiastiche”.

Federico Zampaglione

Federico Zampaglione

Assente il senso di ansietà che la situazione antecedente gli omicidi dovrebbe instillare. Quantunque certe inquadrature siano gradevolemente ricercate, altre risultano traballanti e stranamente poco a fuoco (non credo sia un effetto voluto, ma un problema da imputarsi all’imperizia di qualche componente della troupe) . Il difetto più grosso sta nei momenti degli ammazzamenti: tutti di notte, in un buio quasi totale (oserei definirlo “sepolcrale”)! Le vittime sembrano amare ficcarsi in luoghi senza alcun tipo di illuminazione, persino in casa loro, dove non accendono manco le luci interne. In definitiva credo che lo spettatore non puo’ essere del tutto soddisfatto, poiché vede male quel che dovrebbe essere il punto di forza di film come questo. “Tulpa” è stato girato in una Roma che viene esibita col contagocce (c’è solo una magnifica ripresa dell’EUR). Un paio di situazioni non hanno uno svolgimento logico (Zampaglione ha bisogno di affinare la sua abilità di sceneggiatore). La conclusione giunge recando con sé almeno una nota lieta: la sorprendente (?) rivelazione dell’identità del killer. Ottima, così come in “Shadow“, la prova di Nuot Arquint. E’ un deciso passo indietro rispetto all’opera precedente, però è un tentativo volenteroso e dignitoso. Vedibile ma senza attendersi troppo. Sulfureo…

VOTO 6 (di incoraggiamento)

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Radcliffe e Lewis

Ann Radcliffe

Ann Radcliffe

Inghilterra. Siamo alle fine del “secolo dei lumi”, la ragione sta per fare spazio a una nuova sensibilità dell’animo con l’appressarsi del Romanticismo ed è in questo momento che Ann Radcliffe e Matthew Gregory Lewis, sulla traccia creata da Horace Walpole col suo “Castello di Otranto” (1764), contribuiranno in maniera fondamentale a delineare e a cementare le basi del romanzo gotico. Lei, nel 1794, manderà alle stampe “I misteri di Udolpho”, lui, l’anno seguente, “Il monaco”; entrambi i romanzi godettero di straordinaria popolarità. I due valenti scrittori non si conobbero mai: la Radcliffe proveniva da una famiglia agiata e si sposò giovane; disertava le occasioni mondane e visse una vita molto ritirata e dedicata alla scrittura (sei i romanzi portati a termine tra i quali va ricordato il notevole “L’italiano” o “Il confessionale dei penitenti neri”, 1797). Lewis, parimenti di felici natali, studiò a Oxford ed ebbe incarichi istituzionali; fu un discreto avventuriero ma trovò il tempo di frequentare amabilmente Lord Byron e Percy B. Shelley; ebbe anche modo di conoscere lo scalmanato William Beckford e di dare una mano a Walter Scott nel mondo letterario. Proprio Scott rappresenta l’unico sottile legame tra Lewis e la Radcliffe: criticò (azzarderei non senza ragione) il lavoro dell’autrice.

Il monaco, 1795

Il monaco, 1795

Radcliffe e Lewis avevano due modi assai differenti di tradurre su carta lo scontro tra pensiero razionale e credenze soprannaturali (ivi comprendendo tutto quel che concerne la fede) e le loro invenzioni fantasmagoriche lo dimostrano: a (spesso) eroine impaurite ma risolute e pure calate in magioni lugubri e spaventose; alla grande abilità, con poche pennellate, di creazione della tensione legata a un’innata capacità evocativa dell’elemento orrorifico (grazie all’implementazione di classici elementi gotici), posseduta dalla Radcliffe, si contrapponevano personaggi ambigui, (anti) eroine scandalose e vessate (qualcuno accusò Lewis di misoginia all’uscita del romanzo); a cui si sommavano violenza, trasgressione, carnalità, macabro e una forte connotazione dell’elemento “desiderio” fattosi peccato, che diventa motore precipuo dell’avvento del male, di Lewis. Si potrebbe dire che “Il monaco” tenti di rendere spaventosamente reali passione demoniaca e orrore soprannaturale che in “Udolpho” (o ne “L’Italiano”) erano solo maestosamente evocati per poi essere vanificati nel finale. Dunque abbiamo due differenti tipi di “sensibilità”: una “spirituale” contrapposta a una “fisica”, due facce dello stesso sistema emozionale atto a creare spaventi e riflessioni su ciò che è sacro e su cosa è mera superstizione (“una mente informata è la miglior sicurezza contro il contagio da follia e vizio”, cit. “Udolpho”). Sebbene H.P.Lovecraft nel suo celeberrimo saggio* avesse dimostrato in più passaggi di non amarli molto: “la Radcliffe e Lewis si prestano alla parodia”; accusando la Radcliffe, come fece Scott, di proporre un soprannaturale fittizio, “spiegato” da atti “naturali”, e Lewis di eccessiva prolissità e trasgressività, è indubbio che questi due personaggi furono fondamentali per la narrativa mondiale (esulando da quella gotica). Ebbene, entrambi nacquero oggi, 9 luglio: per la Radcliffe è il 250° anniversario, per Lewis il 239°. Queste poche righe mi servivano per fare loro gli auguri!

PS: oggi è anche l’anniversario della nascita di Merwin Peake ma per un “triello” non ero attrezzato. Ne parlerò più avanti!

 

* ”L’orrore soprannaturale nella letteratura” (1927)

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The Good, The Bad, The Weird: JURASSIC WORLD (2015)

Jurassic Park 1993Era il 1993 e Steven Spielberg diede inizio a una franchise leggendaria (la prima nella storia del cinema), quella di Jurassic Park. Cosa poteva esserci di meglio che un film con protagonisti feroci dinosauri a caccia di indifesi esseri umani il tutto ambientato ai giorni nostri su un’isola sperduta? Assolutamente nulla! Infatti la prima pellicola, “Jurassic Park”, vinse tre Oscar “tecnici” e incassò la strabiliante cifra di 920 milioni di dollari* in tutto il mondo (è stato recentemente riproposto in 3D portanto il totale oltre il miliardo di dollari). L’ardita operazione poteva contare su un ottimo cast (Sam Neill, Laura Dern e Jeff Goldblum), su una buonissima sceneggiatura e su grandi musiche (del maestro John Williams). Anche il seguito, “Il mondo perduto” (1997), andò molto bene. La saga si chiuse col meno riuscito “Jurassic Park III” (diretto da Joe Johnston nel 2001). La nascente tecnica della CGI e gli animatroni formarono un connubio di grande impatto, mai si era visto un uso tanto massiccio di queste innovative tecnologie; una nuova strada nell’immaginario del pubblico era stata aperta (i dinosauri impazzarono da qual momento) e questa serie di film finì dritta nella storia del cinema.

Jurassic World PosterSono passati vent’anni dal primo capitolo e la Universal (coadiuvata dalla Legendary Pictures), dopo infiniti tentennamenti, ha deciso di riesumare i famelici dinosauri sperando di farci un bel gruzzolo. Il nuovo film, denominato “Jurassic World” (“Jurassic Park 4”), è stato affidato alle mani inesperte di Colin Trevorrow il quale sarà affiancato alla sceneggiatura dal giovanissimo Derek Connolly (autore dello script della surreale commedia “Safety not guaranteed”, 2012). La notizia si è diffusa rapidissimamente generando grande entusiasmo e quest’anno sono iniziate le riprese che dovrebbero portare la pellicola nelle sale americane il 12 giugno 2015**. Della trama si sa pochissimo (il giorno di Natale due ragazzini riceveranno in regalo dei biglietti per il famoso parco di dinosauri; la storia sarà ambientata nuovamente su Isla Nublar e ci sarà un nuovo dinosauro, probabilmente acquatico) e non è stato nemmeno chiaro se il film fosse un sequel o un remake, fino a quando il regista californiano, in un’intervista rilasciata alla rivista cinematografica Empire, ha dichiarato l’intenzione di voler creare un film con una serie di seguiti in modo da dare l’impressione di avere un’epopea completa. Ergo questo nuovo capitolo di appresta a essere un vero e proprio reboot della saga creata da Spielberg e basata sul dittico di romanzi creati da Michael Crichton (“Jurassic Park”, 1990 e “Il mondo perduto”, 1995). In virtù di ciò il cast sarà completamente diverso (con la sola eccezione di DB Wong) e vedrà la presenza dell’insipido Chris Pratt, Omar Sy (“Quasi amici”, 2011). Bryce Dallas Howard (figlia del regista Ron “Ricky Cunningham” Howard) e Vincent D’Onofrio. Si vocifera del possibile ingaggio di Jason Schwartzman. La composizione della colonna sonora è stata affidata a Michael Giacchino. Il budget risulta essere di 150 milioni di dollari**. Spielberg è rimasto nella veste di produttore.

Jurassic World

Cosa dire? Il nome del regista non promette nulla di buono, prodotti importanti come questo andrebbero affidati, a mio parere, a mani più salde e rodate. Però la computer grafica ha fatto passi da gigante e il moderno tasso di realismo raggiunto nella riproduzione delle animazioni digitali potrebbe andare a coprire eventuali magagne di sceneggiatura. L’asserzione di Trevorrow secondo la quale Jurassic World intenderebbe esplorare la relazione tra animali e uomini e quali siano le reazioni di quest’ultimo a minacce mortali potrebbe portare a un risultato non necessariamente scadente. Rovinare una saga prettamente avventurosa mi pare un’impresa irrealizzabile anche se eguagliare l’originale (specie i primi due episodi “spielberghiani”) sarà molto dura.

MAYBE GOOD

*boxofficemojo

**IMDB

 

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La Dama sconsiglia: H/H di Banana Yoshimoto

Immagine DamaLa Dama è una preziosa amica, formidabile consumatrice di libri ma anche autrice di leggiadre poesie e racconti. Ha acconsentito a mettere a mia disposizione la sua penna mordace e lancerà strali verso le opere che ha detestato; questo è il risultato per il mese di maggio:

Questa volta è il turno de “H/H” (2001) di Banana Yoshimoto

“Tutti di solito sono convinti che le persone si separano perché una si è stancata dell’altra, per propria volontà o per volontà dell’altra persona. Ma non è così. I periodi finiscono, come cambiano le stagioni. Semplicemente. E’ una cosa su cui la volontà individuale non ha nessun potere. Viceversa, si ha la possibilità, fino a quando verrà quel giorno, di godere ogni momento. Noi due, fino all’ultimo istante, vivemmo nella serenità e nella gioia.”

HHSarò sincera, la Yoshimoto non mi piace. E sarò ancora più sincera, il suo successo mi è inspiegabile. Con questo non dico che scriva male, tutt’altro(nella mia vita ho letto di peggio), ha uno stile semplice, gradevole, asciutto, scorrevole, ma francamente la trovo insipida, banale, a tratti fastidiosamente puerile e ingenua. Nonostante le pochissime pagine (poco più di novanta) ho fatto davvero una fatica tremenda a finirlo (ammetto di aver avuto più volte la voglia di abbandonarlo, ma ho desistito perché non mi piace lasciare i libri a metà, anche se in talune occasioni non riesco proprio a farne a meno). Il libro è composto da due racconti lunghi, “Hard-Boiled” e “Hard Luck” e in entrambi, come d’obbligo, sono presenti i temi tanto cari alla scrittrice giapponese: inquietudine, morte, solitudine e tristezza. Il primo racconto narra di una donna omosessuale che, dopo la morte della compagna, si ritrova una notte in un albergo misterioso dove si susseguono misteriosi fatti e strani accadimenti tutti dolorosamente collegati al suo passato. Tra strane apparizioni, fantasmi, sogni e presagi vari la donna trascorrerà un’intera notte ricordando la sua esistenza passata, dalla morte del padre al rapporto difficile con la matrigna fino all’incontro con la sua compagna. Una notte di riflessione in un albergo fatiscente nel tentativo di distrarsi da un insopportabile dolore… argomento interessante, peccato però non sia stato approfondito a dovere dalla Yoshimoto, che l’ha ridotto in un misero racconto di fantasmi che non spaventerebbe nemmeno un bambino.

Banana Yoshimoto

Banana Yoshimoto

Passiamo al secondo brano contenuto in H/H, di poco peggiore del primo, che vede come protagonista Kumi, una giovane donna che sta trascorrendo i suoi ultimi giorni di vita attaccata a un respiratore a causa di un’emorragia cerebrale. Voce narrante della storia è la sorella che, addolorata e confusa davanti a questa tragedia improvvisa, cercherà di trovare, come dice lei stessa, “un motivo felice per continuare ad aver voglia di vivere” (un po’ come il libro della felicità di Pollyanna). Continuando per il sentiero della sincerità che ho intrapreso all’inizio del mio commento, debbo confermare d’aver trovato queste due storie insignificanti, sempliciotte e fastidiosamente patetiche. Come scritto sopra non ho nulla da dire sul modo con cui sono state scritte (lo stile della Yoshimoto è comunque gradevole), ma per me questa scrittrice ha un grande difetto, quello di trattare argomenti delicati come la morte, la solitudine, l’abbandono, la tristezza, che inevitabilmente cattura chi è costretto ad affrontare una terribile perdita, con un’ingenuità che trovo davvero irritante e irriguardosa. Per me è fastidiosamente scialba questa scrittrice, non riesce a darmi nessuna emozione, nessuna sensazione, mi lascia totalmente indifferente e ritengo ciò un gravissimo handicap. Dei due racconti salvo in parte solo il primo, il secondo è di una scontatezza allucinante. E poi, altro difetto, la trovo ipocritamente (si può dire così?) patetica, al pari, anzi peggio di una delle tante trasmissioni strappalacrime che vanno tanto di moda ai nostri giorni. La Yoshimoto non fa per me; ho letto due suoi libri (l’altro è “Kitchen” e il giudizio è sempre quello) e devo dire che mi è bastato. La lascio a chi è più “aperto” di me, io preferisco dedicarmi ad altri, più meritevoli, scrittori nipponici.

Voto: 4.5

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MiniMammut e Flipback

MiniMammutIl mese di maggio, si sa, è dedicato ai libri e viene accompagnato dal celebrato (da chi?) salone del libro di Torino il quale è sempre foriero di novità editoriali adatte per tutti i palati. Novità giunte puntuali che mirano alla ripresa di un settore notoriamente in grossa crisi; sempre meno gente legge, il cartaceo sta sprofondando, solo l’isola felice degli “eBook” sembra possedere alberi in germoglio. Per provare a superare questa impasse ogni casa editrice ha la propria strategia; ormai è passato un mese ed è ora di fare il punto. Tutte le librerie più fornite sono onuste di nuovi volumi e “collane”ma sono due le iniziative che di cui voglio discorrere: una mi pare lodevole, l’altra demenziale.

Prima le lodi. La Newton Compton, denigrata da alcuni per la carente accuratezza delle traduzioni, ha comunque il grosso merito di sfornare sempre progetti interessanti a prezzi contenutissimi. E’ in questo filone che s’inserisce la sua nuova collana: gli scanzonati MiniMammut. Visto il successo del fratello maggiore, il coloratissimo Mammut (volumoni che raccoglievano più opere del medesimo autore a prezzi invitanti), s’è pensato di ideare un qualcosa di più ridotto nel formato, contenente un solo romanzo, il MiniMammut appunto. La grafica e i colori brillanti delle copertine sono i medesimi, il prezzo strabiliante: 3,90 euro. Una serie di classici golosissimi del calibro di “Orgoglio e pregiudizio”, “Il maestro e Margherita”, “Cime tempestose”, “Il piacere”, “Madame Bovary”, “Don Chisciotte”, “I Malavoglia”, Delitto e castigo”, Moby Dick”, “Il ritratto di Dorian Gray”, “Foglie d’erba”, ecc, che non possono non fare gola a chiunque ami leggere. Visto il successo dei nuovi “millelire” sembra un’idea azzeccata. Sul sito Newton Compton (qui) l’elenco di opere e autori già disponibili.

Roma 2014 Libreria

Ora le note dolenti. Alla Mondadori lavorano in modo diverso, le idee probabilmente vengono al topolino Algernon (quello del romanzo di Keyes). Come risollevare le sorti del cartaceo? Semplice, con una pessima trovata che risponde al nome di “Flipback”. La casa editrice Mondadori ha lanciato in tutte le librerie ciò che lei enfaticamente definisce “rivoluzionario… il nuovo modo di leggere”! Già questa affermazione altisonante è risibile poiché, per quanto io abbia una radicata idiosincrasia per gli eBook, sono indubbiamente loro i rappresentanti di un nuovo modo di leggere, non questi strani “oggetti”. Ma cosa sono i “Flipback“? Una nuova roulette online? Un nuovo gruppo musicale? Una nuova figura del pattinaggio artistico? No, sono semplicemente degli orrendi minilibri, molto simili nelle dimensioni ai leggendari bigini (sono grandi 1/6 dei normali libri), stampati in orizzontale (si aprono dal lato più largo) che si leggono/sfogliano in verticale! I creatori tengono a specificare che il tutto si può effettuare “anche con una sola mano” (ottimo metodo per rovinare le pagine!!). Un’altra nota della Mondadori proclama: “si tratta di libri eccezionali sotto il profilo industriale, realizzati con una cura e una qualità quasi desuete nell’attuale panorama produttivo; la carta, la tipografia, la confezione cucita, l’impaginazione: ogni particolare è stato studiato e realizzato con la massima attenzione per la riuscita finale del libro come oggetto concreto“.

Tratta dal sito Mondadori

La cosa assurda è che si cerca di convincere il lettore che si tratti di volumi, belli, pratici e comodi. A me pare la peggiore idea di sempre! Chi lo vuole un libro grande come il palmo di una mano scritto piccolissimo? (li ho sfogliati io stesso, sono assai scomodi). Piccolo non è bello, piccolo è brutto!  Alla Mondadori han per caso fatto una convenzione con gli oculisti? Per non parlare poi del costo che è di, udite udite, 9 euro!! Una follia… La lista degli autori è tutt’altro che esaltante (roba cheap per un pubblico “addomesticato”): “Splendore” (Mazzantini), “Inferno” (Dan Brown), “La solitudine dei numeri primi” (Paolo Giordano), “La strada verso casa” (Fabio Volo), “Cinquanta sfumature di grigio” (E. L. James), “L’ombra del vento” (Zafon), ecc.

Una certa attenzione nei riguardi del lettore, fosse capace di averne, gioverebbe alla rinomata casa editrice milanese; a mio parere tentativi come questo trasudano una distillata irrisione e un sottile disprezzo per il destinatario finale dell’operazione.

 

* Terza fotografia tratta dal sito Mondadori

 

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