13 BELOVED (2006)

13belovedposterStavolta, per la prima volta, voglio addentrarmi nei meandri del cinema orientale. I pochi che leggeranno già avranno cominciato a storcere il naso: “Orientale? Non mi piace quel cinema, i cinesi sono tutti uguali, i film sono lenti…” ecc, ecc; forse leggendo la provenienza della pellicola, ovvero Thailandia, anche il l’esiguo gruppetto dei più arditi chiuderà la pagina del post; beh, sarebbe un errore. L’intrigante “13 Beloved“, passato al FEFF (il più importante festival di cinema asiatico in Europa; si tiene a Udine a fine mese) con sommo gaudio degli spettatori, è un prodotto assai ben confezionato: ha grande ritmo, è denso di simboli e colpisce allo stomaco lo spettatore con scene di forte impatto. Il merito di tutto ciò è del giovane, e talentuoso, Chookiat Sakveerakul, sceneggiatore del notevole “Body” (Body sob 19, 2007) e del gobilissimo action “Chocolate” (2008) nonché regista del delicato drammone (omo) campione d’incassi, che io ho particolarmente apprezzato, “The love of Siam” (Rak haeng Siam, 2007); qui sceneggia, dirige e monta uno dei migliori prodotti asiatici degli anni 2000.

Se vi offrissero 2 milioni e mezzo di euro (100 milioni di baht nella pellicola) come premio finale per partecipare a un gioco online cosa fareste? Aggiungiamoci che siete appena stati licenziati, dovete mandar soldi a vostra madre e v’han pignorato l’auto; suppongo accettereste. Pusit si trova esattamente in questa condizione e non può fare a meno che iniziare a “giocare”. Le istruzioni gli arrivano tramite cellulare; occorre superare tredici prove per raggiungere l’agognato compenso: quelle iniziali sono incredibilmente facili (la prima è schiacciare una mosca con un giornale) ma via via il gioco si fa sempre più duro e sorprendente; l’ascesa di Pusit verso l’invitante compenso corrisponderà a una discesa all’inferno della moralità dell’individuo…

Piatto a sorpresa!

Piatto a sorpresa!

Che dire, la trama sfrutta una bella idea (tratta da un fumetto) che attinge all’attualità (internet e i reality), sono presenti gustose (!!)invenzioni e godibili colori; il montaggio è serrato, indubbiamente bravo il protagonista (il pluripremiato Krissada Sukosol) e spietatamente delizioso il finale. Ho riscontrato una qualche affinità con “The Game” (a suo volta debitore dell’adorabile “Pesce d’aprile”, 1986) di David Fincher, quindi il genere non è molto ben definibile, direi che è una definizione calzane potrebbe essere black-comedy con aggiunta di diversi altri elementi sapientemente mescolati. La pellicola mostra quali sono i legami e le ingerenze della tecnologia sull’uomo moderno e cerca di indagare quale sia l’impatto del materialismo nella società attuale (sia essa tailandese che mondiale); i problemi sociali sono affiancati da una ficcante analisi centrata su determinati tipi di ossessioni e deviazioni dell’essere umano. E’ in arrivo un remake a stelle e strisce targato fratelli Weinstein. Fidatevi di me, guardatevi “13 Beloved“, è un gioiellino e non ne resterete di delusi. Avvertenza finale: state attenti, alcune prove sono indicibilmente disgustose, non guardatelo vicino ai pasti.

 

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La Dama sconsiglia: ESCO A FARE DUE PASSI di Fabio Volo

Immagine DamaLa Dama è una preziosa amica, formidabile consumatrice di libri ma anche autrice di leggiadre poesie e racconti. Ha acconsentito a mettere a mia disposizione la sua penna mordace e lancerà strali verso le opere che ha detestato; questo è il risultato per il mese di marzo:

Questa volta è il turno de “Esco a fare due passi” (2001) di Fabio Volo

La quintessenza dell’inutilità

Esco a fare due passiOggigiorno tutti si trasformano in scrittori, basta essere un personaggio famoso (politico, calciatore, presentatore tv, velina, letterina e quant’altro), avere una certa massa che lo osanna, trovare un editore che abbia voglia di buttare i suoi soldi e il gioco è fatto.
E’ la volta di Fabio Volo, attore comico che a me, detto con franchezza, non ha mai fatto ridere, un altro di quei tanti vip che, molto probabilmente stanchi dei loro soldi, desiderano averne di più e decidono così di guadagnarne tramite la scrittura, rovinando così questa nobile arte e insozzando gli scaffali delle nostre librerie.
Esco a fare due passi” è, a quanto ho letto, il primo dei suoi libri (perché ne ha anche scritti degli altri, questa è la cosa peggiore…) e ovviamente, come c’era da immaginarselo, è stato un successo nazionale (come si poteva sperare il contrario? E poi ci si lamenta che la nostra è una società di pochi lettori… quelli che leggono ci sono, peccato che la maggior parte di questi preferiscano tal schifezze a libri un tantino più impegnati e di valore…).
Questo libercolo non è altro che un lungo monologo, una lettera che un tale Nico, ragazzo di ventotto anni, scrive a un ignoto destinatario (il suo nome verrà fuori solo nell’ultima pagina).
Leggere le parole di Nico ti fa venire (o perlomeno ha fatto venire a me) ancor più tristezza se già ne sei provvista, un uomo che rasenta l’imbecillità più assoluta, un uomo immaturo, superficiale, stupido, che alla soglia dei trenta non ha alcuna voglia di crescere, di maturare, di responsabilizzarsi… Il classico esempio rappresentato da buona parte degli esseri umani di sesso maschile, un uomo che parla solo per frasi fatte, per luoghi comuni, che appena apre bocca ti mette in fila una dietro l’altra banalità su banalità che ti sconvolgono a tal punto che arrivi a pensare: “ma può esistere gente così nel XXI secolo?”, un uomo che ti tira fuori racconti sulla sua vita privata che rasentano il trash con la convinzione di risultare così simpatico (il racconto delle mutande sgommate è qualcosa di allucinante, no che dico, di veramente triste…), un uomo che con ogni sua parola risulta solo fuori luogo e ridicolo.

Fabio Volo

Fabio Volo

Dopo appena dieci pagine non se ne puoi più, un mare di banalità ti sommerge a tal punto che avresti voglia di scappare prima che quell’onda ti travolga, facendoti annegare… Alla fine quello che ti rimane è solo un grande vuoto e una grande, grande tristezza (altro che risate… beato chi si diverte davanti a queste banalità e sozzerie).
Come al solito ho letto commenti entusiastici, soprattutto in certi siti “per lettori”… Forse abbiamo criteri di giudizio diversi, ma per me questo libro è vuoto, stupido, superficiale, banale, che non meriterebbe nemmeno la minima considerazione, ma per molti è un cult, uno dei libri più originali e divertenti degli ultimi cinquant’anni… Che vi devo dire, avrete sicuramente ragione, ma per me sono libri come questi che distruggono la nostra editoria e, soprattutto, fanno passare la voglia a chi legge di farlo e a chi vuole cominciare di iniziare (oddio, qualcuno potrebbe pure esaltarsi per una “roba” come questa).
Poi ognuno la pensi come vuole, per me questo libro è solo letame…

Voto: 3

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JULES DE GRANDIN di Seabury Quinn

jules-de-grandin-il-cacciatore-di-fantasmiSeabury Quinn è stato un prolifico scrittore americano, praticamente invisibile in Italia (sono stati tradotti una ventina di racconti in tutto, sparsi in molteplici raccolte a tema orrorifico soprattutto per i tipi benemeriti di Fanucci), parimenti sconosciuto è il suo personaggio principale, Jules de Grandin, professione “indagatore dell’incubo”. Questa singolare figura, misto tra lo Sherlock Holmes di Doyle e il John Silence di Blackwood, coniuga l’indagine gialla dell’uno all’avventura fantastico – soprannaturale dell’altro. De Grandin è stato il protagonista di 93 storie, tutte edite in America sulla celeberrima rivista Weird Tales (di cui Quinn rappresenta l’autore più pubblicato con ben 143 racconti) tra il 1925 e il 1951.

Jules de Grandin _ Weird TalesBenché certa critica specializzata non lo ritenga irresistibile, io trovo le sue storie deliziose: mistero e mostri annaffiati da un pregevole umorismo. L’azione è sempre irrefrenabile e lo scambio tra Jules De Grandin e il suo assistente, Dr. Trowbridge, è gustoso; molteplici sono gli incontri con fantasmi, uomini lupo, mummie, non morti, ecc.  

E’ perciò con malcelata soddisfazione che segnalo la recentissima pubblicazione del volume “Jules de Grandin – Il cacciatore di fantasmi” nella collana Orizzonti del Fantastico a cura della PROFONDO ROSSO, piccola bottega del fantastico creata da Dario Argento a Roma nel 1989 e già editrice di molti impeccabili manuali dedicati al mondo del cinema.

Il volume raccoglie 11 avventure del gioviale investigatore distribuite su 184 pagine; non sono tantissime ma è il primo tentativo del genere in Italia. Il prezzo, 9.90, è accessibilissimo. I canali di reperimento non sono quelli usuali, le grandi catene sembrano non possederne scorte. Il sito di Profondo Rosso e il Delos store sono i negozi online ove reperirlo a colpo sicuro.

“Jules de Grandin – Il cacciatore di fantasmi” di Seabury Quinn – collana Orizzonti del Fantastico, editore Profondo Rosso, pagine 184, 9.90 euro

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THE INNKEEPERS (2011)

The Innkeepers 2011Stavolta è il turno di “The Innkeepers“, un piccolo film horror made in USA. Nella produzione ci sono le sapienti mani del geniale pazzoide Larry Fessenden. Claire e Luke sono due ragazzi, lei esile e goffa biondina, lui occhialuto, ciarliero e cinico, che lavorano al Yankee Pedlar Inn, antico albergo che è giunto alla fine dei suoi giorni, poiché quello che si appresta ad attraversare è l’ultimo weekend di attività prima della chiusura definitiva. Gli ospiti del Pedlar sono una signora con bambino e un’ex attrice riciclatasi medium;  in seguito a questi si aggiungerà un vecchio signore. Le ore trascorrono veloci, tra scherzi, brevi sessioni al PC, chiacchierate e indagini fantasmagoriche; infatti  Luke, amante del mondo degli spiriti giura di aver incontrato varie volte il fantasma che infesta l’albergo, quello di Madeline O’Malley. Claire partecipa con fervore a queste ricerche e si presta a fare rilevamenti in varie zone dell’edificio; un paio di volte le sembra anche di venire in contatto con qualcosa d’inusuale…
Ti West è un giovane regista americano che s’era già fatto ben notare col pregevole  “The house of the devil” e con questo lavoro era atteso a una riconferma. Dirige, sceneggia e monta una pellicola diversa da quello che il mercato mainstream propone usualmente, curando il più possibile aspetto complessivo e atmosfera. Scordatevi gli horror superadrenalinici cui le major ci hanno abituato negli ultimi anni, quelli pieni di azione, sangue a secchiate, carnazza, incongruenze, spiegoni e cattivo gusto; qui abbiamo un film raccolto, costruito con pazienza e passione, che cresce piano ma inesorabile come la morte. Ti West procede per accumulo: ci mostra i due giovani intenti nelle loro occupazioni, aggiunge lunghe carrellate per i corridoi dell’albergo (tranquilli, niente telecamera a mano ballonzolante), crea attesa, inserisce uno spavento (che m’ha fatto saltare e m’ha ricordato una scena similare in “Ju-on”) e poi si passa nuovamente alle panoramiche sulle stanze,  a un lungo momento attesa (ma non angosciosa, rilassata e silenziosa perché il tutto sembra scorrere placidamente), sino all’esplosione finale. Ci troviamo immersi in un sonoro minimale, molto soffuso, costruito in modo che si possano cogliere “i rumori” del fantasma, rumori che non arrivano quando te li aspetteresti ma in una sorta di “controtempo”, al di fuori della spirale della suspense. La The Innkeeperstelecamera indugia sulle attività dei due protagonisti, non con inquadrature dal loro punto di vista, bensì da quello di ciò che potrebbe esser nascosto nel buio. Ci scappano poi parti molto semplici e suggestive come quella della discussione con il signore anziano o quella del bidone della spazzatura (che m’ha ricordato una scena in qualche modo similare di “Mullholland Drive“). A un certo punto  Claire sente e vede qualcosa che non dovrebbe esistere, chiede aiuto alla medium la quale scoperchia il vaso di Pandora; l’azione negli ultimi venti minuti si fa più frenetica: arrivano un paio di jump scares “da 90”, la scena nella cantina e il finale che lascia lo spettatore in sospeso per diversi secondi, lì, alla fine di quel corridoio, davanti a quella porta aperta.. Segnalo l’ottimo e spaventoso trucco dello spettro! Discreti gli attori, tra i quali si nota una Kelly McGillis (la medium) invecchiata proprio male. Considerato il bassissimo budget, 750 mila dollari*, è un buonissimo prodotto,  curato scrupolosamente nella sceneggiatura e miracoloso per quanto attiene la messa in scena. Non metto bocca per quanto riguarda la lunga creazione del climax, se proprio si vuole, un paio di spaventi in più, vista l’efficacia di quelli presenti, potevano tranquillamente esser inseriti senza guastare nulla del risultato finale. Temo che al pubblico lobotomizzato di oggi possa piacere poco; negli USA non è piaciuto per niente ma si sa, gli americani se non ci sono grossolanità, non apprezzano.

* Imdb

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77° anniversario dalla morte di H. P. Lovecraft

Lovecraft 1890 - 1937Caso vuole che il giorno dopo la nascita di Algernon Blackwood, benché diversi anni dopo, morisse il maestro indiscusso dell’orrore sovrannaturale, “il solitario di Providence“, ossia H. P. Lovecraft. Il grande e schivo autore americano capace di realizzare “un mito fondatore” della letteratura mondiale, lasciava questo mondo 77 anni fa. Lovecraft odiava la realtà in cui viveva e mal digeriva il realismo infuso negli scritti della letteratura mondiale (nel suo famoso saggio* sulla letteratura sovrannaturale, scrisse a proposito di Flaubert che se non avesse avuto una spiccata tendenza verso il realismo sarebbe potutto diventare, per dirla alla Plinio, un “monstrorum artifex“, un tessitore d’incubi); ci ha lasciato moltissimo materiale che meriterebbe di essere conosciuto da tutti (diverse lettere del suo immane epistolario sono ancora sconosciute). Ci sarebbero innumerevoli brani o cupe citazioni o gustose epistole che potrei riportare ma io e Cthulhu (supremo signore delle profondità inconoscibili) vogliamo celebrarlo (e sarà così ogni anno a venire) con un breve componimento da lui realizzato nel 1916 e intitolato “L’ignoto**:

Cielo agitato…

 la luna nera…

onde in tumulto…

 vien la bufera;

 

Nubi rigonfie…

 ulula il vento…

neri vapori

 in cupo fermento.

 

Splende fra i picchi

 la luna chiara…

Ma Dio! Quella macchia

  sopra il tuo volto

 

Alle montagne della follia

Alle montagne della follia

* “L’orrore soprannaturale nella letteratura” (Supernatural horror in literature, 1927)

** tratto da “H.P.Lovecraft – Il vento delle stelle”, 1998, ed Agpha Press, traduzione a cura di Sebastiano Fusco.

 

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Omaggio ad ALGERNON BLACKWOOD

Algernon Blackwood

Algernon Blackwood

Nella contea di Kent il 14 marzo 1869, ovvero 145 anni fa, nasceva lo scrittore Algernon Blackwood. Durante la gioventù studiò presso le scuole di diverse nazioni europee; in seguito migrò in Canada per poi trasferirsi negli Stati Uniti praticando il mestiere di giornalista (fu anche segretario di un banchiere e venditore di latte in polvere). All’inizio del 1900 fece ritorno nel vecchio continente e diede inizio a una fruttuosa carriera di scrittore di storie orrorifiche. In breve tempo, grazie a una produzione ingente, divenne un punto di riferimento della narrativa soprannaturale. Com’è scontato in casi come questo, ossia quando ci si trova al cospetto di un valente autore, il suo nome è pressoché sconosciuto sul suolo italico. I motivi sono molteplici: vuoi perché occorrerebbe una certa dose di coraggio da parte degli editori; vuoi perché questo genere, come anche la fantascienza, è ritenuto scadente; vuoi perché “l’orrore” è considerato un mercato di nicchia; vuoi perché la conoscenza di certi narratori del terrore è appannaggio di pochi preparati studiosi (o appassionati) e questi non fanno parte dell’organigramma di alcuna casa editrice. Negli anni in nostro aiuto sono giunte alcune pregevoli raccolte organizzate dalla Fanucci (“Colui che ascoltava nel buio” e “John Silence”), più una della Mondadori, una delle Edizioni Theoria e una, recentissima, della Utet; in più vi sono svariate generiche raccolte dell’orrore che includono diversi racconti che però sono sempre gli stessi sei o sette.

Il WendigoBlackwood è stato indicato da H.P.  Lovecraft come appartenente alla categoria dei “grandi autori” del soprannaturale e con esso condivideva un certo approccio alla “realtà sconosciuta”, invisibile ma sempre incombente. Blackwood è un uomo austero ma è senz’altro munito dell’ispirazione necessaria per riprodurre con arguzia situazioni e sensazioni che esplorano una dimensione ultraterrena. Probabilmente non è dotato della finezza narrativa di un Clark Ashton Smith ma non gli si può non riconoscere una certa abilità descrittiva e un’indubbia bravura nella creazione di atmosfere ambigue in cui la realtà va a mescolarsi con l’immaginario. Un valido esempio di questa sua capacità è riscontrabile nel celeberrimo racconto “I salici”: due amici risalgono in canoa il Danubio e si trovano a pernottare su un isolotto sabbioso; qui saranno investiti da eventi inspiegabili e spaventosi. I due protagonisti saranno costretti ad acquisire una coscienza differente da quella del reale cui sono avvezzi e dovranno spostare le proprie abilità percettive verso una realtà “altra” che mai si sarebbero sognati di incontrare. Il racconto, a mio parere, è assai evocativo, costruito con tempi perfetti e giunge al culmine con inaudita efficacia, riuscendo a donare quel senso di inquietudine raramente riscontrabile in scritti di autori più rinomati (pazienza se eccede in qualche vebosità di troppo). “Colui che ascoltava nel buio”, sebbene più discontinuo e centrato sul tema delle case infestate, è un altro riuscito esempio di gradevole racconto in crescendo.

Antiche stregonerie

Antiche stregonerie

Ma oltre ai generici racconti del terrore è un’altra la creazione rilevante di Blackwood: John Silence. Costui è un’inflessibile investigatore puritano protagonista di sei racconti nei quali dovrà confrontarsi con situazioni soprannaturali. E’ dunque un esimio esponente della categoria degli “indagatori dell’occulto”. John Silence è una derivazione del dottor Martin Hesselius di J.S.Le Fanu e dello Sherlock Holmes di sir Arthur Conan Doyle. Nelle sue avventure si troverà a indagare su vari aspetti delle scienze occulte e riuscirà a venirne a capo brillantemente. L’influenza, anche se celata, delle teorie della Golden Dawn è evidente in queste storie: la voglia di sollevare il velo, di penetrare il mistero oltre la cortina della realtà, è tipica degli appassionati di misticismo ed esoterismo. A differenza di quanto avviene nei casi di un altro celebre indagatore dell’incubo, Carnacki (ne parleremo in futuro), qui il sovrannaturale è sempre tale; in ogni “caso” le porte occulte si aprono e vomitano nel mondo reale la loro insondabile manifestazione. Tre di questi racconti sono indubitabilmente di valore (gli altri toccano corde eccessivamente sensazionalistiche e sono piuttosto scostanti), in particolare non posso non citare “Antiche stregonerie”: una pittoresca cittadina francese fa da contorno a una misteriosa vicenda con protagonisti degli incredibili gatti. Le pagine di questa vicenda trasudano un’atmosfera unica. Tutto ciò rappresenta solo una parte infinitesimale della produzione di Blackwood che scrisse fino a tarda età e morì a 82 anni avendo pubblicato circa 30 volumi.

Raccolta BlackwoodQueste poche righe rappresentano il mio prosaico omaggio per la presente ricorrenza. L’augurio che posso fare a questo considerevole scrittore è che in un futuro prossimo possa conoscere una maggiore diffusione.

Blackwood ha scritto riguardo alla creazione dei suoi racconti: “il vero racconto sovrannaturale dovrebbe uscire da quel nucleo di superstizione che si annida in ciascuno di noi; e siamo ancora abbastanza vicini ai tempi primitivi con il loro terrore per l’oscurità, perché la Ragione abdichi senza eccessiva resistenza

Buon Anniversario Algernon!

 

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The Good, the Bad, the Weird: “EQUALS” (2015)

Nel 2000 non sorge il sole

Nel 2000 non sorge il sole

Correva l’anno 1948 e George Orwell, infastidito dalla tendenza totalitaria assunta dagli intellettuali occidentali, cominciò, avendo ben presente il precedente lavoro di Zamjatin, la stesura del romanzo distopico per antonomasia, ovvero “1984”.  Il popolare romanzo ebbe due trasposizioni cinematografiche: nel 1956 con la firma di Michael Anderson intitolato “Nel 2000 non sorge il sole” e nel 1984, remake del precedente, regia di Michael Radford, con il riconoscibilissimo titolo “Orwell 1984”. La riduzione di Anderson (futuro regista del notevole fantascientifico “La fuga di Logan”, 1976) è asciutta, tetra, stilizzata, riproduce degnamente il senso di drammatica oppressione che si respira tra le pagine del romanzo. In definitiva un buon lavoro che potete vedere qui. L’opera di Radford invece è meno riuscita. Ottimi messa in scena e colori di Deakins ma l’atmosfera è priva della carica di angoscia presente nell’originale e alcune sequenze si trascinano stancamente. Fu l’ultima interpretazione di Richard Burton. Sono passati trent’anni da allora, quindi una nuova, scintillante, riduzione, visto l’attuale fulgore del cinema “fantastico”, ci starebbe benissimo; beh, è quello che devono aver pensato alla “Scott Free Productions”.

Orwell 84Il film s’intitolerà “Equals” e fin qui, benissimo; a differenza di quanto sostiene IMDB, si tratterebbe di un adattamento in chiave romantica del film del 1956. Si, avete letto bene, “romantica”. Il trend che sta attraversando Hollywood è quello della riduzione dei romanzi Young Adult che stanno, ahimè, furoreggiando in tutto il mondo. Cavalcare l’onda è d’obbligo e quale migliore occasione potrebbe esserci che stuprare il re dei romanzi distopici bagnandolo in salsa rosa? “A love story of epic, epic, epic proportion”, questo è ciò che ha dichiarato a proposito del progetto colei che sarà coinvolta come attrice protagonista, ovvero l’idolatrata Kristen Stewart; a questo punto le nubi si fanno sempre più fosche all’orizzonte. Per recitare al fianco dell’eroina di “Twilight” (2008) è stato scelto l’inespressivo Nicholas Hoult. A tal proposito si stanno facendo diverse speculazioni sulla trama per la quale si teme un’inversione di ruoli tra Julia e Winston Smith. Alla sceneggiatura Nathan Parker che coadiuvò “il figlio di Bowie” per la stesura dell’ottimo “Moon”. Alla regia un bamboccione di 30 anni, tale Drake Doremus, noto per aver diretto un pessimo film sentimentale intitolato “Like Crazy” (fu premiato dalla giuria al Sundance 2011 – credetemi, dovevano essere ubriachi); alle cupe nubi si sono aggiunti tuoni fragorosi e fulmini accecanti. Ancora una volta il significato dell’intera operazione parrebbe essere: i produttori vogliono fare soldi e commercializzare una storia d’amore per adolescenti, con o senza sfondo distopico, è la via più facile… “Equals” (anche la scelta di modificare il titolo è estremamente indicativa) è in fase di pre-produzione, non è detto che la lavorazione vada in porto…

Stewart e Hoult

Stewart e Hoult

Previsione:

ABSOLUTELY and TOTALLY BAD

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SIDO (1930)

3767b049477f9fc5cdd5931f7f763b33_w190_h_mw_mh Sido altri non è che il nome col quale il padre di Colette, “il Capitano”, usava chiamare la moglie ed è il diminutivo di Sidonie. Questo delicato omaggio alla vita famigliare della Colette giovinetta ci consegna il ritratto di una donna forte ma delicatissima, spesso dedita al suo giardino fiorito, circondata da leggiadre ortensie e rose dal colore rosso acceso. Sido è madre premurosa ma anche donna frizzantissima con un grande cuore e un incommensurabile amore per i figli. Colette si rispecchia in lei, intuisce che molte delle peculiarità materne hanno contribuito a delineare il suo modo di essere e questo libricino è il suo modo per ringraziarla. La preoccupazione precipua di Sido è quella di portare luce e calore presso i suoi cari e vi si dedica sempre con grande passione e trasporto. Questa donna di provincia, profonda conoscitrice dei venti, non è però un’ingenua contadinotta ma un’elegante signora, che è ben conscia di cosa sia la vita mondana parigina, anche se ne resta lontana. Viene poi tinteggiata la figura del padre di Colette, “poeta e cittadino”, che si muove in questo paesaggio rurale come ingabbiato dall’amore incondizionato e infinito per Sido. Il capitano è un uomo che Colette non ha mai capito sino in fondo, solo dopo la sua morte ha compreso l’enorme devozione sempre mantenuta nei confronti della madre. La perdita della gamba durante la guerra aveva reso quest’uomo estremamente buono coi figli e fedele marito con l’unica preoccupazione di morire dopo la consorte. Nelle pagine successive si procede con la descrizione dei “selvaggi”, i due bei fratellastri di Colette; complici irrequieti, dotati di grande intelligenza e ingegno! Ci viene raccontato un loro gioco letterario molto carino: scelta una parola “tabù”, in questo caso “grazioso”, i due, leggendo un qualsiasi romanzo, avrebbero dovuto pagare pegno, versando in un salvadanaio due monete d’oro, ogni volta che l’avessero incontrata. Avrebbero invece prelevato dieci monete se il libro ne fosse risultato privo. Le ultimissime brevi pagine sono dedicate alla sorella maggiore, “l’estranea, la bruttina piacente”, sposatasi nonostante il parere contrario della madre.

Colette

Colette

Debbo premettere  d’avere una particolare predilezione per quest’autrice francese non troppo frequentata dagli italici lettori. Forse “Sido”, edito nel 1930, non è il migliore libro di Colette, però credo meritasse uno spazio qui, tra le “cose” che prediligo. Questo “grassioso” romanzo non ha nulla di retorico né di autocompiaciuto, m’è parso molto “sentito” e verace, conserva sia la brillantezza che l’ammaliante eleganza tipica del modo di scrivere di Colette. Nello svolgimento ha un sentore di nostalgico, di dimesso e probabilmente gli manca quel “quid” che m’aveva fatto adorare “Il grano in erba”. Se confrontiamo le due opere qui è riscontrabile una certa mancanza di freschezza, di un ritmo giocoso che invece esondava dalle pagine di quell’altra e la rendeva quasi magica. M’ha come dato l’impressione di essere al cospetto di una (bella) tela ormai un po’ stinta che si contempla con malinconia. Per chi ha già imparato ad apprezzare Colette è un must, per chiunque altro potrebbe rappresentare un ottimo approccio…

 

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OSCAR 2014: preferenze e previsioni

Oscar 2014

Ci siamo, la “Big Night” è alle porte, gli Oscar 2014 verranno assegnati tra poche ore. Avendo visionato tutti i film principali mi parrebbe simpatico provare a buttare giù le mie preferenze e previsioni per quasi tutte le categorie (no, documentari e film d’animazione no). La linea generale adottata nella selezione di quest’anno  mi pare sia “film americani per un pubblico americano” sebbene in un paio di casi il respiro dei temi trattati abbia uno spettro molto ampio. Cominciamo dunque (in arancio le previsioni):

MIGLIOR FILM: i candidati, com’è ormai consuetudine, sono molti, non tutti meritevoli. “Philomena” e il Capitano Phillips mi paiono finiti qui per puro caso; il lupo di Di Caprio è un bello spettacolo ma sa “di già visto”; “Gravity” mi pare ampiamente sopravvalutato e credo che nemmeno l’Academy lo prenderà in seria considerazione; “Nebraska” è un film delizioso ma non possiede grande respiro; “American Hustle” è divertente e girato magnificamente ma manca della scintilla decisiva; “Dallas Buyers Club” è un’opera importante e ricalca una storia vera riportata in maniera incisiva ma per il miglior film non credo sia adatto, quantomeno io gli ho preferito altro. Ho adorato “Her“, film geniale e visivamente intrigantissimo, ma i temi affrontati in “12 anni schiavo“, la discriminazione razziale e la tratta degli schiavi, sono ancora troppo attuali e la pellicola, sebbene soffra di eccessiva lunghezza, serve in maniera eccelsa allo scopo. Credo che “Dallas Buyers Club” sarà il premiato. Inconcepibile che “Saving Mr. Banks” non sia stato inserito in questa e in altre categorie maggiori. Il mio preferito:

12 ANNI SCHIAVO

 

MIGLIOR REGIA: qui sono in difficoltà, non saprei quale sarà il prescelto dall’Academy; credo che alla fine il riconoscimento sarà per Steve McQueen e il suo “12 anni schiavo” (visto che non credo sarà premiato come miglior film). Per quanto mi riguarda tenderei a scartare Payne e Cuaron, quindi resterebbero Scorsese e David O. Russell. “American Hustle” ha un paio di passaggi memorabili e personaggi che rimangono impressi; “The wolf of Wall Street” è a tratti eccessivo ma scivola via che è un piacere,uno Scorsese veramente in forma. Il mio preferito:

David O. Russell per AMERICAN HUSTLE

 

MIGLIOR SCENEGGIATURA ORIGINALE:  Bob Nelson (“Nebraska“) ha ideato un delicato “road movie” e credo se la giocherà con il duo Russell & Singer (“American Hustle“) per il premio. Quest’ultimo potrebbe avere la meglio. Non vedo possibilità per “Dallas Buyers Club“. Per quanto mi riguarda le sceneggiature “fortissime” sono due: quella di Woody Allen per il brillante “Blue Jasmine” e quella dell’immaginifico Spike Jonze per “Her“. Ho amato “Her“, il “Se mi lasci ti cancello” di questo decennio e sarebbe un delitto se la giuria non l’avesse premiato!

Spike Jonze per HER

Her

Her

MIGLIOR SCENEGGIATURA NON ORIGINALE: qui i giochi sembrerebbero più semplici, l’Academy andrà dritta su John Riley per “12 anni schiavo“. Escluderei “Before Midnight” e “Philomena” che mi sono sembrati poca cosa e andrei su uno tra Billy RayCaptain Phillips – Attacco in mare aperto” e Terence Winter che, partendo da un materiale derivativo, ha costruito una buonissima storia.

Terence Winter per THE WOLF OF WALL STREET 

 

MIGLIOR ATTORE: a mio parere qui il verdetto è già scritto, “braccio corto”, al secolo Matthew McConaughey, vincerà la sua prima statuetta. Io invece sono combattuto: Chiwetel Ejiofor ha svolto il “compitino” e credo sia stato inserito solo per “par condicio”; Di Caprio ha fatto un buonissimo lavoro ma non ha “osato” (è il suo difetto maggiore, non osa mai!); Bruce Dern è adorabile ma è capitato nell’anno sbagliato. McConaughey ha azzeccato l’interpretazione della vita (come fu per Nicolas Cage in “Via da Las Vegas“) ma se la vede con un Christian Bale fantastico. Amo le mutazioni del corpo e il panzone truffatore di Bale è incredibile (vedere la prima scena per credere).

Christian Bale per AMERICAN HUSTLE 

Christian Bale

Christian Bale

MIGLIOR ATTRICE: immagino che io e l’Academy avremo una coincidenza riguardo la premiata in questa categoria. A Meryl Streep darei la statuetta ogni volta che recita ma quest’anno ha poche possibilità, forse perché invischiata in un film poco riuscito (il peggiore in assoluto tra tutti quelli che ho visionato). Per Judi Dench  (“Philomena”) vale lo stesso discorso, grande attrice ma nominata solo per tributarle un ennesimo omaggio. Sandra “Miss Detective” Bullock è, per quanto mi riguarda, un mistero: cosa ci fa qui??? Avrei inserito Emma Thompson per “Saving Mr. Banks” o Scarlett Johansson per la voce in “Her” (anche se l’Academy non prevede una candidatura del genere). Amy Adams in “American Hustle” fa il suo ma c’è qualcun’altra che merita di più in quel film; ovvero l’ineccepibile e aristocratica Cate Blanchett, in “Blue Jasmine” pare più reale della realtà tanto è brava.

Cate Blanchett per BLUE JASMINE

 

MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA: Barkhad Abdi per il Capitano Phillips suona come una candidatura riempitiva;  non mi capacito di come abbiano potuto nominare “pupazzone”  Bradley Cooper, “American Hustle” è un “film di attori” e lui è decisamente in peggiore! Avrei inserito il sontuoso Jeremy Renner al suo posto! Michael Fassbender versione schiavista offre una prestazione maiuscola (è il primo degli  attori protagonisti di cui ho visionato il film) ma poi ho tanto apprezzato la prova dello svarionatissimo Jonah Hill; quest’ultimo se la giocherà con Jared Leto che, in “Dallas Buyers Club“, interpreta la parte di un convincentissimo tossico transessuale. Il suo ruolo è indimenticabile, spero e credo, che anche l’Academy lo riconoscerà. Sarebbe un meritato premio a un uomo nato come musicista sex symbol ormai divenuto poliedrico  e solido attore.  

Jared Leto per DALLAS BUYERS CLUB

 

MIGLIOR ATTRICE PROTAGONISTA: anche questa è una categoria di non facile attribuzione. Lupita Nyong’o ha già avuto un premio con la candidatura (anche se gli ultimi sondaggi la danno favorita). Sally Hawkins non m’è parsa interpretare un ruolo da statuetta e Julia Roberts pagherà il fatto di far parte di un film brutto. Dopo aver visto “American Hustle” avrei scommesso su Jennifer Lawrence come sicura vincitrice, veramente brava; in seguito ho ammirato la signora June Squibb fornire una grande prova, con almeno una scena indimenticabile (quella al cimitero) in “Nebraska” e mi sono venuti alcuni dubbi. L’Academy premierà la Squibb perché la Lawrence non può vincere un secondo Oscar a soli 23 anni.

Jennifer Lawrence per AMERICAN HUSTLE

Jennifer Lawrence

Jennifer Lawrence

MIGLIOR FOTOGRAFIA: “Nebraska” ha un bianco e nero che più che esaltarlo lo danneggia, quindi no. L’ottimo “A proposito di Davis” è stato inserito nella categoria sbagliata. Deakins è un mago e “Prisoners” è un bel vedere. Temo che, scandalosamente, l’Academy premierà “Gravity” snobbando il serico “The Grandmaster” che meriterebbe alla grandissima. Una pellicola pregna di mmagini che ispirano sogni angelici.

Philippe Le Sourd per THE GRANDMASTER

 

MIGLIOR SCENOGRAFIA: categoria agguerrita in cui almeno 3 pellicole meriterebbero; credo che la battaglia finale vedrà prevalere “Il grande Gatsby” ai danni di “American Hustle“. Il mio favorito è, ovviamente, un altro (gli interni sono qualcosa di imperdibile e gli squarci di città sono ammalianti):

Barrett & Serdena per HER

 

MIGLIORI COSTUMI: anche qui credo il discorso sia il medesimo fatto per la scenografia; “La donna invisibile” e “12 anni schiavo” non hanno possibilità. Stavolta “Il grande Gatsby” potrebbe lasciare strada ad “American Hustle” (se gli americani possono accontentare tutti non si tirano di certo indietro). Anche stavolta il mio prediletto è un altro poiché, se non si assegna il premio a Grandmaster qui, in quale categoria glielo si dovrebbe dare?

William Chang Suk Ping per THE GRANDMASTER

The Grandmaster

The Grandmaster

MIGLIOR COLONNA SONORA: quella di “Philomena” non so come mai sia stata inserita; mentre a sir John Williams la candidatura spetta di diritto benché sia dovuta a un film mediocre (“The book thief”). La singolar tenzone vede due contendenti accreditati al massimo livello: “Gravity” e “Her“. Debbo ammettere entrambe assolutamente meritevoli. L’Academy, per un motivo diverso dal mio (per dare almeno un contentino al film di Jonze), premierà:

Butler & Pallett per HER

 

MIGLIOR MONTAGGIO – MIGLIOR MONTAGGIO SONORO – SOMORO – EFFETTI VISIVI: credo che in queste categorie, quelle tecniche, il vincitore sarà sempre il medesimo, “Gravity“. Forse qualche possibilità per “American Hustle” nel montaggio.

 

MIGLIOR FILM STRANIERO: l’Academy ha, incomprensibilmente e inaspettatamente, fatto fuori nei turni precedenti due film ottimi; il leggiadro “The Grandmaster” di Wong Kar-wai e l’importante “Il passato” di Farhadi (il vincitore morale di molti critici). Questo ha spianato la strada a Sorrentino e alla sua “Grande Bellezza“. Ma c’è un ma: il documentario cambogiano è poca roba; il film belga è più che discreto ma nulla più; non ho visto il palestinese “Omar” quindi non so dare un giudizio; il problema arriva col danese, ovvero “Il sospetto” di Thomas Vinterberg. Ci si aspetta una vittoria di Sorrentino ma la pellicola che vien dalla Danimarca è splendida, spietata, di un realismo angosciante; a mio parere un capolavoro di rara ferocia. L’Academy sarà abbagliata dall’estetica italiana o dalla concretezza nordica?

IL SOSPETTO di Thomas Vinterberg 

Il sospetto - Mads Mikkelsen

Il sospetto – Mads Mikkelsen

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POISON (1991)

Poison 1991Quel prezioso santuario arcano che è “Fuori orario” regala sovente la visione di pellicole inusuali e difficilmente reperibili; questo “Poison” del 1991 è una di quelle e rappresenta il primo lungometraggio di Todd Haynes (regista dei mirabili “Velvet Goldmine“, 1998 e “Lontano dal paradiso“, 2002). “Poison” è costituito da tre differenti vicende ognuna delle quali è stata spezzettata in più parti per poi essere cucita insieme a quelle degli altri racconti andando a creare una sorta di complesso puzzle. I 3 episodi sono i seguenti:
HERO: la signora Beacon racconta di come suo figlio abbia ucciso il marito sparandogli e poi sia letteralmente volato via dal davanzale di una finestra non facendo mai più ritorno a casa. Questo primo episodio è raccontato sottoforma di documentario (quasi patinato benché si avvalga di colori “luridi”) in cui i conoscenti vengono intervistati per parlare dello strano ragazzino e per capire le motivazioni del suo gesto.
HORROR: il Dr.Graves riesce ad isolare il “siero del desiderio sessuale” ma, per puro sbaglio, lo berrà da una ciotolina trasformandosi in una specie di mostro senziente che contagerà moltissime persone. Nonostante tutto qualcuno cercherà di aiutarlo. Girato in un livido b/n è un omaggio al cinema Sci-Fi degli anni ’50.
HOMO: il detenuto Broom s’invaghisce del detenuto Bolton per il quale prova un enorme desiderio sessuale. Ma la vita in carcere è dura e il destino spietamente beffardo. Questo episodio è ispirato alle novelle di Jean Genet (in particolare a “Il miracolo rosa“). I colori, come l’atmosfera, sono molto cupi, solo qualche flashback dai toni abbaglianti viene a portare un pò di luce.

Horror

Horror

Anche se i tre episodi narrati sembrano slegati tra loro hanno più di un aspetto in comune: quello palese è rappresentato dalla H con la quale iniziano i rispettivi titoli. I tre protagonisti sono dei diversi o meglio, considerati tali. Il ragazzino di “Hero” è descritto come “strano” e viene spesso picchiato; il Dr. Graves, deformato dal suo siero, è scansato da tutti; forte è il richiamo alle malattie infettive, come l’AIDS; in “Homo” è evidente il riferimente all’omosessualità come rappresentazione della diversità.
Haynes mette grande premura nel mostrarci il perbenismo imperante, la bontà di facciata di una società che invece si sta sfaldando, intrisa di atavici pregiudizi, dove basta un nulla per esser considerati dei diversi venendo emarginati. L’AIDS, l’omosessualità, le manie personali sono spettri che si agitano sul fondo delle coscienze.
Nonostante il basso budget, essendo un film indipendente, si nota una certa cura nella realizzazione, Haynes, specialmente in “Homo” è audace, ci mostra l’atto sessuale con coraggio, vuole colpire duro. Come risulterà dalla produzione successiva in quest’opera sono già riscontrabili alcune delle sue caratteristiche peculiari: l’originalità, il tormento, una spiccata acredine verso le convenzioni, un’elegante sfrontatezza e l’ammiccamento compiaciuto, anche se comunque è difficile ingabbiare il suo modo di fare cinema in una o più classificazioni. Qualcuno ha definito questo film sovversivo, altri ripugnante, io sono incline a ritenerlo diverso, impertinente e curioso; non lascia indifferenti. Indubbiamente non è un prodotto adatto a tutti: un paio di scene sono “forti” e “l’intrattenimento” non era certo l’obiettivo perseguito del regista. Classico (buon) film da festival. Nel cast John Leguizamo.
Gran Premio della Giuria al Sundance Film Festival 1991

VOTO 7

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